mercoledì 5 maggio 2010

Volterra e gli Etruschi - La Tomba ritrovata

Profilo storico e scientifico

La Tomba Inghirami è forse la più famosa tomba volterrana di epoca ellenistica. Essa fu scoperta dai fratelli Jacopo e Lodovico Inghirami nei terreni di loro proprietà nel 1861.
Interessante, a questo proposito, la menzione che fa della scoperta Don Filippo Gori, l'anno successivo (1862): "I due fratelli sigg. Iacopo e Lodovico Inghirami, facendo la villeggiatura di maggio in quel casino che prende nome dall'ameno giardino che vi si vede (Villa Giardino) nonchè dal prossimo convento (San Girolamo), amanti come sono delle cose patrie, dieronsi a tentare scavi in quel terreno che soprasta la loro villa [...] il grandioso ipogeo scoperto l'anno decorso, attualmente reso di facile accesso, può dar allo studioso l'idea più giusta della vera ed integra forma di quelle case mortuarie".
Da quanto si legge è facile immaginare che la zona di San Girolamo doveva avere un aspetto molto diverso da quello odierno e che la ricerca archeologica poteva avvenire senza l'impedimento delle strutture ospedaliere e delle strade. Interessante altresì il fatto che, dopo la scoperta, si pensò subito a rendere la tomba fruibile agli studiosi di antichità.
La tomba conteneva infatti al suo interno molte urne cinerarie: sul numero esatto ci sono discordanze. La prima menzione è di 42 o 44, per poi passare a 53, cosa che fa pensare a modeste manomissioni e aggiunte al nucleo originario, forse attingendo ai materiali provenienti da tombe rinvenute nelle vicinanze.
La tomba, come la maggior parte delle tombe volterrane, è a camera ipogea. Vi si accede attraverso un ripido dromos con gli scalini tagliati nella roccia, la locale "panchina". L'ingresso, originariamente chiuso da un lastrone in pietra, permette l'accesso ad una grande camera di forma circolare con pilastro centrale e un'unica banchina di deposizione che corre sui lati. Qui, secondo le notizie, erano collocate le urnette, sistemate su una doppia fila: l'impressione che dovettero avere i due fratelli al momento della scoperta non è facile da immaginare, ma una tale ressa di sarcofagi con i defunti recumbenti scolpiti sui coperchi, doveva certo creare una forte suggestione. L'impressione di affollamento doveva esser ancora maggiore se si pensa che, oltre alle urne, all'interno della camera funeraria, trovavaposto un ingente corredo composto da ceramiche e manufatti in bronzo e ferro di vario genere (vasellame da cucina e da simposio, strumenti per la toilette, oggetti della vita quotidiana atti a rappresentare la ricchezza raggiunta in vita e ad accompagnare il defunto nell'aldilà). Purtroppo di esso non esiste più nessuna traccia e nemmeno risulta menzionato nei primi rapporti: fu forse venduto o disperso mentre le urne rimasero all'interno della tomba per molti anni, cosa che non giovò certo alla loro conservazione. Esse infatti "ebbero a soffrire, nel periodo in cui rimasero a Volterra, gravi danni da parte dei visitatori che staccarono e levarono, per ricordo della loro visita, talune teste dai rilievi migliori", scrive il Milani, direttore del Museo Archeologico di Firenze, in una delle lettere che accompagnano l'atto con cui tutto il complesso fu assicurato allo stato nel 1899 per la somma di 8000 lire. L'idea era quella di preservare intatto il nucleo e il contesto di rinvenimento, data la sua integrità e la possibilità di studiare l'avvicendarsi di generazioni pertinenti al medesimo ambito familiare. Fu così che la tomba Inghirami venne disegnata con cura e ricostruita nel giardino del Museo Archeologico di Firenze e al suo interno vennero poste le urne, tutte precedentemente inventariate e descritte con dovizia di particolari. L'alluvione del 1966 coprì le urne di fango ma un accurata ripulitura le restituì al loro antico splendore.
La tomba, da quanto risulta nelle poche iscrizioni che accompagnano i sarcofagi, doveva appartenere alla famiglia Ati: a differenza dei Ceicna\Caecina, che usarono già il latino per le iscrizioni sui loro monumenti, questa famiglia forse fu una di quelle che difesero la loro etruscità fino alla fine (non esiste nessuna iscrizione in latino sulle casse, sebbene le ultime deposizioni della tomba Inghirami si datino già in età romana). Lo studio della tipologia dei coperchi e delle casse delle urne permette inoltre di datare l'arco di tempo entro cui questa tomba familiare fu in uso: il più antico coperchio può esser datato al pieno III secolo a. C., ma sembra incerta la sua pertinenza alla tomba. Certamente pertinenti invece sono invece le urne databili al II sec. a. C., periodo in cui a Volterra erano largamente attivi scultori che producevano urne cinerarie e coperchi su larga scala e di diversi livelli qualitativi. In largo numero sono presenti anche esemplari di I secolo a. C, mentre il termine post quem che segna la fine dell'utilizzo della tomba va cercato nelle urne con coperchi a timpano, ascrivibili all'età augustea. Ricapitolando dunque, la tomba fu in uso sicuramente dall'inizio del II sec a.C. ai primi anni del I sec d.C. Considerando che una generazione viene usualmente stimata in 30-40 anni, nella tomba risultano così deposte almeno 5 o 6 generazioni di etruschi.
Eccetto le urne a cassa liscia (le più tarde), tutte le casse sono decorate a rilievo. La maggior parte dei soggetti è ricollegabile a miti greci, come "la morte di Mirtilo", "la morte di Enomao", "Eteocle e Polinice", ma non mancano anche le consuete scene con soggetti propriamente funerari, con le varie forme di "viaggio agli inferi" e di "congedo funebre".

L'intervento di recupero

Passando a descrivere l'intervento di ripulitura della tomba, dobbiamo innanzitutto ringraziare per la fiducia accordataci la soprintendente Dott.ssa Annamaria Esposito, la quale ha sempre appoggiato e incoraggiato l'operato del gruppo di volontari e appassionati, già legati alla causa dell'archeologia attraverso il nascente Gruppo Archeologico Velathri. Un grazie infinito anche a tutti coloro che hanno voluto supportare questa causa e sono scesi nell'oscurità rischiarata dalle moderne lampade alogene per riportare alla vita un monumento così importante, riallacciando in qualche modo con il loro operato quel filo che ci lega al nostro passato.
L'intervento è consistito innanzitutto nella rimozione dello strato di interro accumulatosi nel tempo all'interno della tomba fino alla messa in luce dell'originaria superficie scolpita nella roccia. Non poche sono state le sorprese: all'interno del terreno asportato sono stati infatti rinvenuti in corso di scavo o durante il successivo vaglio al setaccio della terra, numerosi frammenti archeologici: la maggior parte di essi consiste in frammenti di vasellame a vernice nera, alcuni attribuibili alla locale fabbrica di Malacena, forse parte dell'originario corredo della tomba o, probabilmente, secondo quanto ci dice anche il Consortini, parte dei corredi delle tombe rinvenute durante i lavori per la costruzione del manicomio ("..nel detto ipogeo vi sono state trasportate di recente urnette semplici e scolpite e gran numero di vasi fittili in frantumi raccolti da altri ipogei riscoperti in occasione di lavori per il frenocomio.."). Assolutamente degni di nota anche alcuni frammenti di cassa e coperchio di urnetta: seppur frammentari essi potrebbero venire restituiti, dopo un non semplice raffronto, alle urne originarie.
Una volta completata la pulizia (che alla fine si è trasformata quasi in uno scavo archeolgico), si è provveduto alla sostituzione del fatiscente cancello in legno con uno in ferro battuto, degno di far da ingresso alla tomba; la scalinata di accesso è stata provvista di corrimano e alcuni degli scalini sono stati restaurati. Il lastrone di chiusura è stato fissato alla parete da un pernio di sicurezza. Tutto questo grazie al solerte lavoro degli operai del Comune e delle ditte attivate mediante il contatto di Renzo Provvedi, factotum e instancabile lavoratore. E' stato così che, dopo anni di oblio, la tomba è tornata a splendere del suo fascino e della sua suggestione. Volterra recupera un altro monumento del suo illustre passato, troppo spesso considerato come un fardello e non come una risorsa. Ogni tanto, anzichè coperte dal cemento e messe a tacere per sempre, le vestigia etrusche tornano a parlare.
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Simone Stanislai © 2010 - SOS VOLTERRA)